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scuno nella propia diocesi far decreti di dîsciplina, ai quali i sudditi sono tenuti di obbedire. Possono ancora in materia di dogma censurare, e proibire certe o~ pinioni, che essi stimino contrarie alla verità cattolica, almeno interinalmente, le quali censure e proi bizioni i sudditi sono tenuti ad osservare cogli atti esterni, quantunque non obblighino all'assenso interno di fede. Adunati poi che siano i vescovi a concilio generale, allora sono veri giudici della fede obbliganti all'assenso interno, e sono legislatori in materia di disciplina universale.

138. Posto ciò si domanda, l'autorità di giudicar della fede e di far leggi universali, che i vescovi esercitano adunati a general concilio, la conferisce loro il Papa, oppure l'hanno essi indipendentemente dal conferirla loro il Papa? Se il Papa è quello che conferisce loro tale autorità, dunque i vescovi saranno meri vicari e consultori del Papa, non esercitando. essi altra autorità che la conferita loro dal Papa. Dunque il Papa potrà a general concilio convocare quei soli vescovi che a lui piaceranno, ed escluderne tutti gli altri. Queste conseguenze quanto sono necessariamente connesse con quel principio, altrettanto sono inammissibili, e incompatibili con la pratica, e con la dottrina di tutta la tradizione. Se poi si dirà che i vescovi in concilio esercitano come giudici della fede, e legislatori insieme col Papa, una potestà loro propia annessa al loro carattere e da questo medesimo carattere procedente indipendentemente dalla concessione del Papa; allora non è il Papa solo, in cui esi

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sta la sovrana potestà del concilio generale certamente sovrana. Dunque lo stato è reggimento della Chiesa non è puramente e semplicemente monarchico.

139. E perciò altri dicono che è una pura Aristocrazia. Ma questa opinione urta di fronte il dogma cattolico del primato del Papa, il quale si distrugge in realtà, benchè forse si lasci sussistere in parole e in apparenza. In questa opinione o ridurremo il primato del Papa a termini di mero onore e di precedenza, e con ciò non si ritengono gl'insegnamenti della fede, o faremo dipendere i diritti e la potestà del primato dalla concessione della Chiesa, o sia del corpo aristocratico, e così non si ritiene l'istituzione immediatamente divina del primato sì chiaramente insegnata dalla scrittura, e attestata costantemente dalla dottrina della Chiesa.

140. Notiamo qui di passaggio certe espressioni, le quali con grande rammarico di tutti i buoni, si vedono assai spesso, anzi pur del continuo usate con affettata predilezione da certi scrittori, i quali montano in furia quando dolcemente si dà a travedere qualche sospetto sul loro cattolicismo. Costoro sempre che hanno a parlare del Papa, costantemente lo chiamano Capo ministeriale, Legato, e Ministro principale della Chiesa ec. Coteste espressioni sono molto inesatte, e malsonanti, per non dir di peggio. Il senso che ingeriscono natúralmente coteste maniere di parlare è, che l'autorità tutta del Papa dipende dalla concessione della Chiesa: come, p. e. in una republica l'autorità di un magistrato dipende dalla conces←

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sione del corpo sovrano il quale per conseguenza può ampliare, restringere, ed anche togliere del tutto tale autorità, darla ad altri ed esercitarla da se immediatamente ec. Un tal senso applicato alla primazia del Papa, certamente è erroneo.

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141. Sò io bene che qualche antico scrittore ha usate qualche volta tali espressioni; ma le ha usate in ottimo senso; nè vi era pericolo allora che si prendessero in senso erroneo quando niuno pensava a combattere o palesemente, o sordamente l'immediata divina istituzione del primato, e i diritti di S. Pietro, e de'suoi successori. Ma dopo il dannato sistema ereticale di Edmondo Richer, e dopo le massime erronee poste in voga dai Giansenisti sopra l' ecclesiastica gerarchia, è una affettazione troppo chiara, e pericolosa l'usare quelle espressioni malsonanti, offensive delle pie orecchie, favorevoli e conducenti allo scise all'errore, e per diritto e per traverso volercele cacciar sempre avanti agli occhi. Si sa pure che S. Agostino riprende l'usare, dopo la nascita di certe eresie, espressioni usate dai Padri anteriori a quelle eresie. Il S. padre ne da questa convincente ragione, poichè quegli antichi parlavano, diciam così alla buona, poichè erano intesi nel giusto senso : Secure loquebantur, quia recte intelligebantur, e non potevano prevedere quei nemici, che sarebbero venuti dietro le spalle a ferire le verità cattoliche, abusando delle antiche espressioni. Ma noi, soggiunil S. padre, dopo insorte quelle eresie, dobbiamo parlare con certe cautele, perchè la trascuratezza

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delle parole non faccia nascere eresie nella Chiesa; Nobis ad certam regulam loqui fas est, ne verborum licentia, etiam de rebus quae his (verbis ) significantur, impiam gignat opinionem (Lib. X. de civit. Dei cap. XXXIII). Dovrebbero i nostri avversari ricordarsi qualche volta della necessaria regola insegnata da S. Tommaso, e presa da S. Girolamo, che ex verbis inordinate prolatis incurritur Haeresis (I. part. quaest. XXXI. art. 2). Le medesime parole dice S. Gregorio Nazianzeno (Orat XLII ). hanno senso buono, o cattivo secondo le circostanze; e la circostanza più osservabile é il carattere, e la dottrina nota delle persone che di tali parole si servono. Eaedem voces si recte intelligantur, cum pietate conjunctae sunt; si perperam exponantur, impietate non carent.

142. Già mi aspetto che gli avversari mi citino un'altra regola insegnata da S. Atanasio (Orat. IV adver. Arian.) che le espressioni usate da un cattolico debbano prendersi in senso cattolico senza malignare sulla inesattezza delle medesime : hoc si quis ex orthodoxis simpliciter diceret,nihil esset quod male suspicareris de hoc dicto, quippe ibi bona mens superaret simpliciorem loquendi morem. Ed io per riverenza a S. Atanasio deporrò ogni sospetto sul simpliciorem loquendi morem, quando gli avversari avranno provato con tutta la necessaria certezza la loro bo

nam mentem.

143. Notiamo ancora così di passaggio l' imperizia, • diciam più verò, la malizia di tutti coloro che me

nano altissimo romore quando sentono chiamarsi il Papa Sovrano, e Monarca nel governo della Chiesa. In ciò fanno eccellentemente le loro parti il Febronio, il portoghese Pereira, gli autori degli annali ecclesiastici di Firenze di alcuni anni in dietro l' Eybel, il Tamburini, e vari altri. Hanno costoro la malizia di attaccar subito ai termini di sovrano e di monarca, la ributtante idea di dispotismo, quando si parla del Papa. Hic desidero prudentiam vestram. Sarebbe bene aprir un poco gli occhi al cieco fanatismo, e dire a tutti costoro : » Badate a quel che fate. Voi imitate mal' a proposito quel tra» ditore descritto da un poeta, che mentre all'uno all' altro mena. L'odio che voi mostra» te contro la sovranità, e monarchia del Papa, non » vedete voi che può da taluno credersi vada a feri» re la civil potestà di tutti i monarchi della terra? »

» accenna,

144. Inoltre a sentir costoro, pare che colle espressioni di monarca, e di sovrano applicate al Papa, uscir si voglia dai limiti della giurisdizione spirituale, e passare ad invadere i diritti temporali dei principi secolari. Difatti i sopra nominati campioni non mancano mai con tali supposti, e pretesti, di portare la face della discordia da per tutto, e di accen→ dere fuoco tra il sacerdozio e l'impero. Ma quando per difendere la propia causa si ricorre a coteste ma◄ lizie, e detestabili artifizi, non si ottiene poi altro finalmente presso le persone intelligenti e savie, che di metter se stessi fuori della regola di S. Atanasio espressa di sopra, e dimostrare malam mentem. EPISC. T. I.

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